La Basilicata di Giuseppe Decollanz: trilogia delle “Storie di Montepeloso” ed altri racconti. Parabola di un uomo anti-trasformismi e anti-gattopardismi ormai sempre più diffusi.

(in alto, Giuseppe Decollanz agli esordi come maestro elementare)

Chi è padrone del passato
è padrone del futuro.
GEORGES ORWELL

La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
siamo noi, bella ciao, che partiamo.
La storia non ha nascondigli,
la storia non passa la mano.
FRANCESCO DE GREGORI




di Carlo De Nitti *

Alla memoria dei miei Maestri,
che sempre illuminano il mio percorso

INTRODUZIONE

    Non essendo un esperto di letteratura, le pagine che seguono non ambiscono a costituire una prima ricostruzione critica, operata con gli strumenti professionali della filologia, della Trilogia alle “Storie di Montepeloso” a cui Giuseppe Decollanz (Irsina, MT, 01.12.1935 – Bari, 08.06.2012): ha dedicato gli ultimi anni del suo impegno intellettuale e civile, prima di esservi prematuramente sottratto: "La guerra siamo noi. Storie dalla Basilicata" (2009), "I datteri di Giarabub" (2010) e, pubblicato postumo, "Baldassarre Arrivadopo" (2013), anche sotto forma di e-books da Rebus Tv books.

    Queste righe hanno, più semplicemente, come fine quello di ricostruire un percorso tematico compiuto dall'Autore, che è contestualmente narrativo ed esistenziale, attraverso una lettura sinottica dei suoi testi di narrativa in una prospettiva che potrebbe essere definita realistica.


CANIO MUSACCHIO
  
    Le tre Storie della Trilogia raccontano “storie effettivamente accadute. Sono veri e sono esistiti anche tutti i personaggi che ne sono protagonisti. Solo in pochi casi, quando gli eventi narrati assumono carattere di particolare gravità, i nomi dei personaggi sono stati cambiati”. Accanto alla comune, precisa, ambientazione geografica – Montepeloso, il nome antico di Irsina, “uno dei tanti paesi su una franosa collina della Basilicata al confine con la Puglia” (La guerra siamo noi!, p. 29), dalle fiere tradizioni socialiste, diffusesi tra la fine del XIX secolo e gli inizi del ‘900, per l’opera dell’avvocato gravinese Canio Musacchio (1866 - 1909), mantenute vive durante il Ventennio (Irsina fu l’ultimo paese del Mezzogiorno in cui l’amministrazione comunale cadde di fronte alle violenze dei fascisti) e rifiorite con il ritorno alla democrazia, l’indimenticato paese natale di Giuseppe Decollanz – i testi della Trilogia hanno una medesima collocazione storica, gli anni del fascismo, e, naturalmente la medesima, coerente, prospettiva storiografica: testimoniare i danni prodotti dalla violenza fascista anche in terra di Basilicata (o Lucania, come Mussolini stesso volle che fosse chiamata), contro qualsiasi revisionismo in voga negli ultimi anni.

BALDASSARRE ARRIVADOPO

    La vita di Baldassarre Arrivadopo, il protagonista di questo nuovo volume con un cognome che sembra un soprannome, attraversa la storia di Montepeloso, negli anni che vanno dall’epilogo del XIX secolo alla fine degli anni Venti: lasso di tempo che ha visto l’Italia coinvolta in due avvenimenti epocali: la prima guerra mondiale e l’affermazione del fascismo come regime totalitario.

    Baldassarre vive da protagonista questi due momenti: dopo un’infanzia in cui è orfano della madre prima e del padre Agostino poi, viene allevato dalla zia paterna, Marietta, ed una fanciullezza che non lo vede impegnato – come a moltissimi accadeva all’epoca – nel lavoro in agricoltura, nella pastorizia o nell’artigianato ma nello studio liceale prima a Potenza e poi presso il Seminario vescovile di Molfetta senza conseguire la maturità. Questo è il cruccio della zia/mamma: “Le opprimeva il cuore e le rendeva affannoso il respiro il terrore che Baldassarre potesse diventare, non completando il liceo, come una bandiera a mezz’asta, o meglio come un pesciolino smarrito che nell’oceano sterminato e infido nuotasse e si agitasse senza mai imboccare la direzione giusta per tornare alla tana […] A quel nipote, affidato a lei da un destino amaro e crudele che gli aveva negato di avere un padre e una madre, aveva dedicato se stessa. Ora era angosciata dal timore che, invece di farne un avvocato, stesse correndo il rischio di farne uno studente fallito, come dicevano i Montepelosani di tutti coloro che per ragioni più o meno diverse erano costretti a interrompere gli studi (pp. 8-9).
        
    Dopo lavori, oggi si direbbe da precario, di tipo impiegatizio – in un’agenzia di assicurazioni ed all’Ente Comunale Assistenza – un giorno gli arriva da Saverio Capezzera, una proposta: “Perché non ti arruoli come volontario? L’età giusta ce l’hai! Potresti fare anche una brillante carriera. Ascolta il mio consiglio: invece che annoiarti in questa stanza vuota e senza luce, vai ad arruolarti! La guerra per noi sta andando molto male. Dopo la batosta di Caporetto, le truppe austriache stanno per oltrepassare il Piave! Abbiamo disperato bisogno di giovani disposti a combattere! Potresti arruolarti nel Corpo delle Guardie portuali che la Compagnia di Navigazione Rubattino ha costituito per difendere le sue navi ancorate nel porto di Massaua, in Eritrea, e da lì transitare nell’esercito. Tanto il corpo delle guardo portuali è solo una finzione; in realtà quel corpo, voluto da Salandra, il capo del governo, è frutto della volontà di formare un battaglione di volontari perfettamente addestrati e pronti a tutto. Quanto prima sarà spedito al fronte, sulla linea del Piave, per fermare l’avanzata degli austriaci.” (p. 31).

    Per la vita di Baldassarre Arrivadopo, è la svolta - come per tantissimi della sua generazione; la prima guerra mondiale funge da spartiacque e crea aspettative in tutti i combattenti che vogliono migliorare le loro condizioni al termine della guerra: figurarsi Baldassarre che per la Patria ha sacrificato una gamba, un braccio ed un occhio. Essere fagocitato nel nascente movimento fascista è tutt’uno: il 23 marzo 1919 il protagonista partecipa all'atto di fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento durante l'adunata di piazza San Sepolcro a Milano. “Il totale allineamento di Baldassarre sulle posizioni del Fascismo più intransigente, più violento e squadrista, ma soprattutto acerrimo nemico di tutto ciò che puzzava di ideologia socialista, egualitaria e libertaria, piacque molto a Benito Mussolini. Ricordando l’entusiasmo e l’ammirazione che il giovane “grande mutilato di guerra” aveva suscitato a Milano nel giorno del sansepolcrismo, il Duce pensò di utilizzare a vantaggio di se stesso e del proprio partito il mito dell’eroe della grande guerra e decise di inserire Baldassarre nell’elenco di coloro ai quali avrebbe quanto prima conferito l’onorificenza di fregiarsi della ‘Sciarpa Littorio’” (p. 80).
    
    L’eroe di guerra, il compaesano famoso e politicamente influente – fama testimoniata dalla sua foto sui giornali il giorno seguente all’adunata - torna in paese allorquando il Partito lo designerà quale Commissario straordinario della sezione montepelosana per contrastare il perdurante consenso elettorale di Nicola Mitilde, sindaco socialista: “Con lui forse riusciremo a ribaltare la situazione, perché rappresenterebbe una valida alternativa a Nicola Matilde. E’ assurdo che alle elezioni per il parlamento prendiamo molto più voti dei socialisti, mentre alle elezioni per il sindaco trionfa sempre Nicola Matilde. Il fascino che lui esercita sulla gente è grande, può essere scalfito solo da Baldassarre, l’eroe della stampella” (p. 79). Nel momento cruciale della cerimonia di insediamento del neo commissario politico che ha il compito di estirpare il ’fuoco’ dell’ideologia socialista che, da Montepeloso a Montescaglioso, da Bernalda a Tursi e fino a Rotondella, continuava ad ardere sotto la cenere, nel tempo in cui il Duce pensava all’istituzione delle seconda provincia (Matera) nella medesima prospettiva politica, un avvenimento imprevisto: “Nel silenzio che sembrava aver fermato perfino il respiro dei presenti, risuonò alto e forte un grido di sdegno e di rabbia, un grido di fede e di vendetta. Cadde con martellante cadenza sulle teste dei presenti, richiamandoli bruscamente ad una realtà dura e terribile. - Fascisti assassini! Viva Giacomo Matteotti! Viva il Socialismo! Abbasso Benito Mussolini! L’atmosfera di sorrisi e di compiacimenti si trasformò, di colpo, in uno sconvolgente turbinio di paure, di grida, di invocazioni di Santi e Madonne, fu un fuggi fuggi generale” (p. 99).
    
    Siamo nel novembre del 1926, quando sono state emanate le leggi cosiddette ‘fascistissime’: viene scatenata una caccia all’uomo da parte dei fascisti che, dopo aver ucciso due innocenti contadini e manganellato Nicola Mitilde in modo da farlo morire poco
dopo “come il compagno Giacomo Matteotti!” (pp. 110-112), pensano di aver trovato il ‘vero’ colpevole in Emanuele Capotosto, un muratore di Grassano, cognato del Vescovo di Tricarico, giunto a Montepeloso dal parroco, per rattoppare le crepe sui muri del campanile. Anche il suo pestaggio ha conseguenze mortali: il Vescovo, per ottenere giustizia, si recò di persona a Roma, “fece visita a vescovi e cardinali, anche a quelli con i quali non aveva rapporti né di amicizia né di conoscenza; fece anticamera nelle segreterie di molti gerarchi fascisti, perfino del Ministro dell’Interno al quale la sua visita era stata richiesta dal cardinale Gentiloni” (p. 120). Il Duce in persona – impegnato nelle trattative con il Vaticano che avrebbero messo capo l’11 febbraio 1929 alla firma dei Patti Lateranensi – non può fare a meno di destituire tanto il podestà di Montepeloso, che la Sciarpa Littorio Baldassarre Arrivadopo, confinandolo nell’isola di Rodi, dove morirà pochi mesi dopo all’età di appena trenta anni.
        
Anch’egli è un ‘vinto’ (per prendere a prestito la definizione di Giovanni Verga), vittima del regime: illuso dalla retorica bellica e fascista, innalzato agli onori e poi abbandonato al proprio destino di confinato, come un sovversivo qualunque: “ Povero Baldassarre, anche all’appuntamento con la libertà e con la democrazia è arrivato dopo, è arrivato da morto. Una vita inutile! […] “’ stato, in realtà, un martire della dittatura fascista, una vittima predestinata delle nefande violenze degli squadristi, un ingenuo cittadino tradito, come quasi tutti gli italiani, dalla insulsa e banale retorica del Duce, di Benito Mussolini” (p. 127).

I DATTERI DI GIARABUB

    Anche nel volume I datteri di Giarabub, Giuseppe Decollanz racconta le origini dell’affermarsi del fascismo come dittatura nelle vicende di Montepeloso/Irsina, attraverso la vicenda di un’altra vittima del regime. L’originale titolo del volume deve il suo nome alla coltivazione ed alla commercializzazione del frutto tropicale nell’oasi di Giarabub, l’avamposto della colonizzazione italiana della Libia (unione della Tripolitania e della Cirenaica), al confine orientale con l’Egitto, occupato dalle truppe italiane il 7 febbraio del 1926 e tenuto fino al 1941, allorchè fu conquistato dagli Inglesi che sconfissero gli uomini comandati dal colonnello Salvatore Castagna. Le vicende narrate nel volume iniziano in una data ben precisa, la sera del 4 gennaio 1925, il giorno seguente di un celeberrimo discorso mussoliniano, pietra miliare nelle tappe di costruzione dello Stato fascista. “Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. [...] il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino. L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela
daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario.” Siamo nel momento in cui, dopo l‘uccisione di Giacomo Matteotti, la secessione dell’Aventino e lo sbandamento tra le fila del fascismo che ne seguì, Mussolini riafferma il proprio potere e consolida - attraverso un processo che sarebbe durato poco più di un anno, dal 1925 al 1926, mediante le cosiddette leggi ‘fascistissime’, note anche come leggi eccezionali del fascismo - la trasformazione di fatto dell'ordinamento del Regno d'Italia nel regime fascista, ossia in uno Stato totalitario dalla forte componente ideologica, di tipo nazionalista, centralista, statalista, corporativista ed imperialista.

    Il microcosmo di Montepeloso la ‘rossa’ è lo scenario paradigmatico di quello scontro tra democrazia e totalitarismo, tra opposte concezioni del mondo che si stava consumando in
tutta Italia, essendo un paese dalle radicate tradizioni socialiste che elesse, ancora nel 1922, nonostante il dilagare della violenza politica dei fascisti, un sindaco socialista, Nicola Mitilde (cfr. La guerra siamo noi!, pp. 38-39), che fu tale fino alla trasformazione della carica in quella di podestà, di nomina regia. Con il ritorno alla democrazia, Irsina continuò ad essere governata costantemente da giunte ‘rosse’ (cfr. La guerra siamo noi!, il capitolo
“L’occupazione delle terre”, pp. 187-205). I datteri di Giarabub è, in un certo senso, la prosecuzione ideale del precedente volume: alle vicende della Montepeloso della metà degli anni ’20 del XX secolo Decollanz non guarda più attraverso gli occhi di un bambino protagonista – il Pippinillo de La guerra siamo noi! - ma da una visuale estrinseca, quella tipica dello storico: il volume, molto interessante ed affascinante, è una puntuale ricostruzione di un delitto nella forma del romanzo in cui il narratore è esterno alla vicenda, né vi partecipa, e la ricostruisce in modo analitico, dando rilievo ai ‘fatti’, tutti realmente accaduti. Lo storico, com’è ampiamente noto, non è un entomologo e la sua soggettività (i suoi ideali, il suo vissuto) è parte integrante della sua ricerca e della sua analisi: Decollanz non fa eccezione. L’intento che lo anima nella scrittura non è un’asettica ricostruzione di vicende di oltre ottanta anni fa, ma la denuncia dei “guasti profondi ed irreparabili che una dittatura o un violento autoritarismo possono arrecare alla democrazia e stritolarne i principi fondativi” di cui i protagonisti delle vicende ricostruite nel volume ne sono anche preterintenzionalmente i simboli.
    
    Egli parte da quest’idea forza e, nei diciassette capitoli che costituiscono il libro, ricostruisce con meticolosa puntualità non solo l’uccisione di un giovane studente, figlio del medico condotto, da parte del leader indiscusso dei fascisti montepelosani, che cerca in ogni modo di farne attribuire la colpa ad un povero vecchio, che induce ad autoaccusarsi, ma anche il suicidio di questi ed i connessi decessi di due suoi camerati e complici. Tra i protagonisti del processo ci fu, in qualità di avvocato difensore del Garzelli, addirittura Roberto Farinacci, già difensore di Amerigo Dumini, accusato dell’assassinio di Matteotti, e segretario generale del P.N.F.. Dopo poco più di tre mesi dalla condanna per omicidio involontario, i responsabili di quel delitto vengono invitati ad andare nell’oasi di Giarabub, dopo la decisione del regime di popolare la colonia libica - abbisognevole di lavoratori e soldati, ma con molti restii a trasferirsi colà, preferendo l’emigrazione in America o in Istria ed in Dalmazia - con carcerati condannati a pene minori. “Vi mandiamo nell’oasi di Giarabub, appena conquistata. Lì ci sono i palmeti da coltivare: “Vi assegneremo una parte dell’oasi e vi aiuteremo, anche economicamente, finchè non avrete messo in piedi una vera e propria azienda di produzione di datteri, tale da consentirvi di essere autonomi. Le cassette di datteri caramellati da voi confezionate, saranno acquistate dal monopolio di Stato e vendute nei tabacchini, come le sigarette! Tante più cassette riuscirete a produrre, tanto più guadagnerete. Potreste addirittura diventare ricchi!” (pp. 209-210).
         
    Molti dei personaggi che vivono in questo volume, il lettore li ha già incontrati nel precedente La guerra siamo noi!: il medico condotto, dott. Nicola Consiglio, il cui figlio Raffaele è ucciso la sera del 4 gennaio 1925, i suoi assassini, i fratelli Garzelli, il dott. Gennaro Esposito, pretore, ed il maresciallo Carobelli, comandante della locale stazione dei Regi Carabinieri, di Montepeloso, tenaci investigatori e protagonisti del rinvio a giudizio, ma soprattutto uomini fedeli alle leggi dello Stato.
        
    Conclude Decollanz, al termine del volume, guardando i protagonisti degli avvenimenti narrati: “L’incrociarsi delle loro vite era stato, per ciascuno di loro, una grande tragedia dalla quale erano stati travolti senza conoscere né i motivi né le ragioni” (pp. 212). Anche se, sostiene a giusta ragione, “motivi e ragioni c’erano stati ed ebbero la forza di resistere ancora per qualche tempo […] in un momento storico in cui gli italiani furono ammaliati dalla tragica illusione che l’orbace, la camicia nera, gli inni patriottici e otto milioni di baionette avrebbero dato loro benessere e felicità” (p. 213).

LA GUERRA SIAMO NOI

    Quella medesima retorica che portò l’Italia tutta nel 1940 in guerra: una guerra vissuta e patita nelle storie di vita di tutti: di soldati e di civili, di lutti, di famiglie spezzate, di vedove, di orfani, di fame, di ordinaria ma dignitosa miseria e di quotidiano eroismo per sopravvivere. La guerra che Giuseppe Decollanz racconta nel primo volume della Trilogia, La guerra siamo noi! Storie dalla Basilicata. Ciò che nel XXI secolo non si percepisce con la spettacolarizzazione di tutti gli eventi, per cui le guerre sono diventate un fatto mediatico, da vedere in televisione con immagini truculente trasmesse dai telegiornali o dai talk show per fare audience, di cui e non si riesce a cogliere la drammaticità reale.

    “La guerra siamo noi! Siamo noi che ci troviamo sempre in mezzo a patire, a soffrire e
a morire! C’è chi la fa e chi la subisce. Noi la patiamo!” (p. 9): era il pensiero quasi unanime dei montepelosani, che vissero la feroce occupazione germanica, l’arrivo liberatorio degli angloamericani con il suo carico di speranze per l’avvenire e l’immediato dopoguerra. Protagonista del libro è Pippinillo, un ragazzino intelligente ed intraprendente che, nonostante la sua età, della guerra conosce già l’aspetto più tragico: il suo papà Luigi,
artigliere, è caduto dopo due mesi di guerra sul fronte albanese e la mamma Antonietta compie sacrifici inenarrabili per far crescere bene i tre figli, Pippinillo ed i suoi fratelli minori, Nicolino e Raffaelino, nato due mesi dopo la morte del padre.  Molto struggenti i luoghi in cui l’Autore parla del padre di Pippinillo che “partito da Montepeloso, per partecipare alla varie guerre combattute da Mussolini, quando lui aveva soltanto tre anni, non aveva fatto in tempo a stamparlo nella memoria, non riusciva a ridisegnarlo né con gli occhi né con la mente” (p. 179): “non era più tornato, neppure in un cassetto di ossa da deporre e sistemare nel sacrario dei Caduti d’oltremare a Bari” (p. 198). L’assenza del padre è surrogata per Pippinillo dalla figura del nonno materno: “Nonno Nicola era tutto per lui! […] Il nonno era il suo maestro, il suo tutore, colui che gli insegnava a impugnare la falce ed a tenere il passo con la paranza dei mietitori […] era l’uomo che aveva sostituito il padre, che dall’Albania non era più tornato. Pippinillo lo amava e lo temeva; cercava in tutti i modi di aiutarlo, si amareggiava quando da lui veniva rimproverato, ma non cessava mai di tenere gli occhi fissi su di lui mentre lavorava; si sentiva come un pulcino accovacciato sotto l’ala protettrice della chioccia quando gli posava la mano sulla testa e abbozzava una lieve e breve carezza. Quando stava vicino a lui e ascoltava la sua voce, si sentiva al sicuro e quasi dimenticava di essere un povero orfanello […]” (pp. 198 – 200). Pippinillo, invece, è un bambino vivace, leader di un gruppo di suoi coetanei con cui condivide giochi e vicende che assumono spesso i contorni di lotta per la sopravvivenza (pp. 20 – 23 e 131 - 146). Un libro, scritto in uno stile piano ed accessibile anche da ragazze e ragazzi preadolescenti: anzi, proprio loro dovrebbero essere stimolati – in primo luogo, dai docenti - a leggerlo al fine di acquisire, attraverso la narrazione rievocativa, quella coscienza storica, che è precondizione dell’educazione alla cittadinanza attiva, postulata dalle Indicazioni programmatiche per le scuole secondarie di primo e secondo grado. E’ un testo da leggere tutto d’un fiato, avvincente nella sua drammaticità reale: commovente è la conclusione della storia “Il falò di Santa Lucia”, che costituisce un punto di svolta nella storia della vita del bambino protagonista: “Pippinillo può andare in collegio […] Passarono solo tre giorni, il tempo di organizzare il viaggio e mettere insieme qualche straccio di corredo; poi mamma Antonietta, accompagnata dal fratello Michele, condusse Pippinillo in collegio. Seduto sul sedile di legno di un vagone delle Ferrovie Appulo-lucane, Pippinillo vide sfumare all’orizzonte le case, i monti, le vigne del paese dove aveva vissuto fino a quel momento. Mentre andava verso nuovi luoghi, capì che quell’allontanamento sarebbe stato definitivo, perché segnava la fine dei giochi, l’addio ai compagni e l’inizio di una nuova vita” (p. 171).

AI MARGINI DEL CRATERE

    Al suo paese, Irsina, ed alla sua terra, la Basilicata, Giuseppe Decollanz aveva dedicato nel 1991 una raccolta di tredici racconti che prende nome dal titolo dell’ultimo di essi Ai margini del cratere (Bari, Levante editore): ovvero quella fascia di paesi della Basilicata, limitrofi rispetto al territorio sconvolto dal terremoto del 1980 e danneggiati dal medesimo. Non a caso il volume ha una dedica estremamente significativa: “A Rocco Scotellaro: la voce”. La voce di un universo contadino dolente reso muto da una storia plurisecolare di oppressione in cui a nessuno sarebbe mai venuto in mente di offrire una chance di ascolto. Un mondo, invero, a cui nessuno aveva neppure insegnato a parlare. Rocco Scotellaro – giovane poeta, sindaco socialista di Tricarico nell’immediato dopoguerra – simbolo di questa Basilicata di antica civiltà dolente, è il nume tutelare di questa raccolta che presenta una variegata gamma di storie di vita che, nel nostro mondo postmoderno, dominato dall’utilizzo, spesso incontrollato, dei new media, possono apparire ‘vecchie’. Un lettore curioso, che si lasci guidare dall’Autore, può invenire in quelle storie un mondo di antica civiltà e le sue peculiarità: dalle difficoltà del vivere alle abitudini di un tempo remoto, dalla nostalgia del passato alla fede religiosa. A questo mondo, Decollanz dà voce come aveva fatto Scotellaro, intimamente fiducioso della possibilità di un “riscatto” che non può essere e non deve essere omologazione a modelli culturali preconfezionati, secondo il migliore pensiero meridionalista del Novecento. I personaggi di Decollanz non sono dei ‘vinti’, combattono pugnaci per migliorare le proprie condizioni - sebbene spesso siano sconfitti, come nel racconto Ai margini del cratere – dal malcostume politico ed amministrativo imperante, vera degenerazione di quella spinta al riscatto sociale, culturale ed economico della Basilicata e del Meridione. 

CONCLUSIONE
     La Trilogia delle Storie di Montepeloso di Giuseppe Decollanz ha al suo interno un continuum che non credo di essere lontano dal vero nell’invenire in tre valori portanti. 

    In primo luogo, nel valore della famiglia: in una situazione affettiva particolare dovuta all’arruolamento del padre ed alla sua tragica scomparsa, testimoniata tanto dalla dedica de I datteri di Giarabub alla madre, “dal fascismo condannata alla vedovanza ed alla povertà”, su cui ampie e commoventi pagine si trovano nel volume del 2008, quanto dall’affettuoso incipit dedicato al nonno materno Nicola, il cui nomignolo ‘il Cappuccio’, “riveniva dall’unanime riconoscimento della sua grande valentia nella coltivazione dei vigneti, con le viti sistemate a copricapo di monaco cappuccino, a quattro a quattro” (p. 17), ben più largamente descritto nel racconto delle vicende autobiografiche di Peppinillo.
    In secondo luogo, in un appassionato radicamento nel suo paese natale di cui la Trilogia medesima tutta è una tangibile testimonianza, come, parimenti, Ai margini del cratere, il racconto omonimo che dà il titolo alla silloge del 1991 lo è della terra di Basilicata (“i nostri sempre appassionatamente amati corregionali”).

ROCCO SCOTELLARO

        In terzo luogo, in una radicale ed incrollabile fedeltà all’ideale socialista, per il quale ogni riscatto umano, prima ancora che economico, sociale e culturale delle classi meno abbienti, di chi ha ricevuto ed ha di meno, può avvenire esclusivamente in una società libera e democratica: fondamentale in essa il ruolo che deve ricoprire la scuola pubblica.
        
    Lo scrittore stringe la mano al pedagogista: non è un caso che Giuseppe Decollanz, da studioso di pedagogia, si sia molto occupato di problemi della diversabilità e dell’integrazione degli alunni handicappati nella scuola di tutti, dedicando all’argomento molti ed originali studi, consegnati ad altrettanto significativi ed apprezzati volumi. 

    Queste storie - che ci siamo fatti raccontare da Giuseppe Decollanz, leggendo questo suo libro postumo in continuità con gli altri due della Trilogia e con la silloge di racconti- molto hanno da insegnare agli uomini del XXI secolo: come si legge nella dedica di Baldassarre Arrivadopo, firmata dai figli, Luigi e Maurizio, “con questi scritti, ha voluto lasciarci un dono prezioso: la memoria storica di ciò che siamo stati. Senza di essa non si può costruire un futuro migliore”.

     In un’epoca, quale quella in cui ci tocca di vivere, ricca di frequenti trasformismi e di diffusi gattopardismi di ogni sorta, quella di Giuseppe Decollanz è una bella lezione di etica e di politica, quelle con le lettere maiuscole. La Trilogia delle Storie di Montepeloso è per tutti un’eredità intellettuale e morale da testimoniare quotidianamente senza vacillamenti.

APPENDICE
Mi piace concludere questo lavoro con un’appendice che riprende tutti i volumi scritti da Giuseppe Decollanz, prodromo di una possibile bibliografia di tutti gli scritti che altri, più titolati, potrà realizzare, consultandone l’archivio:

  • 1972 Educazione e politica nel Pinocchio;
  • 1984 La funzione ispettiva dalla Legge Casati ad oggi;
  • 1990 (a cura di) Educare al Duemila,
  • 1992 Il preside nella scuola media;
  • 1997 Handicap e scuola: questione aperta
  • 1999 La scuola elementare del 2000. Autonomia, curricolo obbligatorio, organico funzionale. Guida al concorso magistrale;
  • 2005 L'integrazione scolastica dei disabili. Dagli istituti speciali alla riforma dei cicli,
  • 2005 Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti,
  • 1990 Colera e carrube, storia di mest Colino Cuccovillo,
  • 1991 Ai margini del cratere,
  • 2009 La guerra siamo noi, storie dalla Basilicata,
  • 2011 I datteri di Giarabub
  • 2013 Baldassarre Arrivadopo (postumo)


POSTILLA
Nel concludere queste righe, non posso pensare con grande affetto e pari riconoscenza alla figura di Giuseppe Decollanz senza associarla a quella di mio padre, Nicola De Nitti (1926- 1986), direttore didattico.
Conosciutisi in quel di Potenza nel 1949, provenienti da realtà geograficamente distanti ed accomunati da dolorose esperienze infantili, hanno condiviso un percorso ideale, amicale e professionale durato un quarantennio.
Mi piace pensarli insieme mentre discutono di Scuola, l’Istituzione cui hanno dedicato – insieme alle rispettive famiglie - tutta la Loro vita.


* Questo testo è la rielaborazione del mio intervento svolto l’8 giugno 2013 all’incontro “La Basilicata di Giuseppe Decollanz” presso la Sala Convegni “Prof.ssa Anna Maria Fantasia Montrone” dell’I.P.S.I.A. “Luigi Santarella” di Bari in occasione della presentazione dell’opera postuma, Baldassarre Arrivadopo.

NOTA DELLA REDAZIONE
A Carlo va la tutta la più sincera e fraterna riconoscenza da parte di tutta la famiglia Decollanz. A Giuseppe e Nicola che parlano di scuola e infanzia ovunque si trovino, piace pensare a tutti noi con grande affetto.

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