Ancora due parole babbo, prima che tu parta per il "lungo viaggio"

In piedi mio padre, Giuseppe Decollanz, all'età di cinque anni.
Sulla sedia suo fratello Nicola, di due anni più piccolo.

C'erano ancora i tuoi pantaloni piegati sulla sedia, la giacca appesa in fretta nell'ingresso, gli occhiali sul mobile del corridoio. Perché te ne sei andato così, senza neanche il tempo di vestirti per uscire. Senza neanche il tempo per una telefonata. Senza neanche il tempo di scambiare ancora due parole. Fossero pure le ultime, con tutta la drammaticità che avrebbero portato con loro. E sei ancora dappertutto, in ogni angolo della casa.

Quando si parte per un lungo viaggio si dovrebbe avere almeno il tempo di raccogliere le proprie cose, di riordinare ciò che resta. A te non è stata data questa possibilità. Perché la tua è stata una chiamata improvvisa, una di quelle che ti fanno uscire in fretta e furia di casa senza lasciare un biglietto. Perché speri di tornare. Sì, la tua è stata una "chiamata". Io così la voglio vedere, così voglio sperare che sia stata. Qualcuno che da lassù ti ha detto: "Vieni via con me".

E quando, addormentato in un letto d'ospedale, ti ho detto che avevamo ancora troppe cose da fare e da dire, che dovevi ancora raccontare tante storie ai tuoi nipoti, io ti ho sentito annuire. Tu mi hai risposto e io ho sentito. Hai chiesto a chi ti chiamava ancora tempo, ma tempo non ce n'era più.
Chi chiamava ti voleva subito, il 6 giugno, il giorno in cui sei diventato padre per la seconda volta. Ma tu hai voluto aspettare. Ci hai voluto dare tempo.

Vorrei dirti che sono sereno ora, ad un mese dall'inizio del tuo "viaggio". Ti dirò, invece, ciò che non sono riuscito a dirti mentre correvo in aeroporto per venire ad abbracciarti: ti voglio bene Babbo e non te l'ho mai detto abbastanza.
ciao babbo, ciao "Boss"
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