Il mondo è in fermento. Conflitti bellici si moltiplicano, il livello di rabbia e risentimento nella società sembra aver raggiunto un picco, acuito ulteriormente dopo la pandemia da COVID-19. E in questo scenario sempre più teso, un fattore spesso sottovalutato emerge con forza: la crescente e, a tratti, patologica dipendenza dai social network, che sta plasmando – in peggio – il nostro modo di relazionarci e di affrontare il disaccordo.
Contrariamente a quanto molti pensano, non sono solo le nuove generazioni a essere intrappolate in questa spirale digitale. Anzi, sono spesso le fasce di età più mature a mostrare una dipendenza crescente e preoccupante, manifestando una profonda incapacità a gestire la dialettica, persino quando si tratta di un semplice disaccordo. Lo schermo dello smartphone è diventato un filtro, una barriera invisibile attraverso cui far passare ogni forma di relazione con gli altri.
Questa mediazione digitale sta causando una preoccupante regressione nella nostra capacità di gestire il confronto diretto. Non ci si telefona quasi più; ci si manda vocali lunghissimi, veri e propri monologhi, pur di evitare un confronto, un dibattito o persino uno scontro verbale faccia a faccia. Questo timore del contatto diretto erode la capacità di mediazione, di confrontare idee anche diametralmente opposte con l'obiettivo di trovare un punto d'incontro basato sul rispetto reciproco. Il dialogo costruttivo si sta rarefacendo, sostituito da monologhi paralleli che non si incontrano mai.
La pandemia da COVID-19 ha agito come un acceleratore brutale di questo deterioramento sociale. Costringendo buona parte della popolazione mondiale all'isolamento e a relazioni mediate esclusivamente da dispositivi elettronici, ha accentuato in modo esponenziale la dipendenza da social e smartphone.
A quanti, ormai, capita quotidianamente di dover far slalom tra chi cammina con lo sguardo immerso in uno schermo? Se siete tra quelli che ancora camminano osservando gli altri, avrete assistito alla scena ormai rituale sui mezzi pubblici: a parte poche eccezioni, tutti hanno lo sguardo perso in uno schermo. Incuranti di cosa accada tutt'attorno.
Questa gestione filtrata delle relazioni sociali attraverso i dispositivi elettronici ha alimentato anche un pericoloso livello di cinismo. Non dovendo più gestire la reazione diretta alle proprie azioni o parole, molti si sentono liberi di abusare della "libertà di espressione". Si augura la morte a chiunque, si deridono i defunti e i loro parenti, si dispensano ingiurie e improperi a destra e a manca, senza il timore delle conseguenze immediate che un confronto reale comporterebbe. Il "dissing" online e la cultura dell'odio prosperano nell'anonimato o nella distanza offerta dallo schermo.
Tuttavia, è cruciale non cadere nella facile tentazione di dare la colpa alla tecnologia per questo declino dell'etica e, in ultima analisi, dell'amor proprio. La tecnologia è uno strumento, un mezzo. Dare la colpa allo smartphone o al social network è un paravento, una comoda scusa per non affrontare la vera responsabilità: la nostra.
Siamo noi che dovremmo avere il coraggio di mettere via i telefonini quando camminiamo per strada, quando ci sediamo a tavola con amici e familiari, o quando prendiamo un mezzo pubblico. Siamo noi che dovremmo tornare a pensare e a parlare, a confrontarci con gli altri, a discutere – anche animatamente – ma sempre con l'obiettivo di arrivare a un punto di incontro, di comprendere, di mediare.
Siamo noi che decidiamo se la tecnologia è buona o cattiva, se è uno strumento di connessione o un mezzo di isolamento e conflitto. Non viceversa. Il futuro del dialogo e della pace sociale è nelle nostre mani, non nelle tasche dei nostri jeans.