L'episodio odierno è un caso di studio perfetto. A poche ore dal post che annunciava la distensione, è seguita una guerra di smentite, accuse incrociate e dichiarazioni contraddittorie. I mercati finanziari, sensibili a ogni vibrazione geopolitica, hanno reagito con la volatilità che contraddistingue l'incertezza. Quella che doveva essere una mossa per la stabilità si è trasformata in un'ulteriore dimostrazione di quanto sia precario un accordo quando la sua stessa esistenza è affidata alla viralità di un contenuto, invece che alla solidità di una stretta di mano in una stanza chiusa.
Questo schema, purtroppo, non è un'eccezione ma una tendenza consolidata. L'utilizzo dei social network da parte di leader politici e governi per comunicare direttamente con il pubblico, bypassando i media tradizionali, è in costante crescita. Secondo recenti studi sulla comunicazione politica digitale, come il rapporto "Twiplomacy", quasi tutti i governi del mondo hanno una presenza ufficiale sui social media. Capi di stato e ministri degli esteri gestiscono account con milioni di follower, trasformandoli in veri e propri canali di trasmissione personale.
Il vantaggio, dal loro punto di vista, è evidente: il controllo totale del messaggio. Un post su X, un carosello su Instagram o un video su TikTok non ammettono il contraddittorio immediato di un giornalista, non prevedono la domanda scomoda che potrebbe svelare una debolezza o un'incoerenza nel piano annunciato. È una comunicazione unidirezionale, progettata per parlare alla propria base elettorale, per proiettare un'immagine di forza e decisione. Si disintermedia il ruolo della stampa, ma così facendo si disintermedia anche il dialogo, il dubbio, la verifica.
E questo ci porta alla domanda cruciale: può questa nuova "diplomazia del proclama" funzionare come strumento di pace nel periodo storico più carico di tensioni dalla fine della guerra fredda? O, come suggerisce il cinismo della realtà , è solo una sofisticata strategia per la ricerca del consenso interno?
La risposta sembra pendere drammaticamente verso la seconda ipotesi. La vera diplomazia, quella che previene i conflitti e costruisce paci durature, è un'arte paziente e silenziosa. È la capacità di "tessere con perseveranza la rete delle connessioni", spesso lontano dai riflettori. Richiede fiducia personale, la possibilità di esplorare compromessi in privato senza perdere la faccia in pubblico, e la costruzione di un linguaggio comune basato su protocolli e sfumature. È un processo lento, metodico e, per sua natura, poco "instagrammabile".
Al contrario, la diplomazia dei social è performativa. Un annuncio ad effetto può generare un'ondata di like e condivisioni, rafforzando l'immagine del leader agli occhi dei suoi sostenitori. È un guadagno politico effimero, un'iniezione di popolarità che, tuttavia, non ha nulla a che fare con la complessa architettura delle relazioni internazionali. Anzi, può persino danneggiarla, irrigidendo le posizioni e rendendo quasi impossibile fare marcia indietro su una dichiarazione avventata senza apparire deboli.
In un mondo sull'orlo di molteplici crisi, affidare la speranza della pace alla logica dell'algoritmo e all'immediatezza di un post non è solo ingenuo, è pericoloso. L'illusione di una soluzione a portata di click ci distrae dalla necessità di un lavoro diplomatico serio e strutturato. L'applauso virtuale per un annuncio di tregua può placare gli animi per qualche ora, ma non costruirà mai le fondamenta di una pace reale. Quella, come sempre, richiede tempo, fatica e molta, molta meno pubblicità .